La costante copertura mediatica a cui artisti, celebrità e personalità di spicco ha vantaggi evidenti, dato che garantisce fama, adorazione, opportunità uniche e lusso sfrenato, ma al tempo stesso osserva silenziosamente e con occhio critico ogni passo di chi sta sotto i riflettori, catturando pregi, difetti ed errori. Così nascono e si propagano, ad esempio, le controversie dei social, talvolta giustificate, in altre occasioni il frutto di un terribile incontro tra disinformazione e cattive intenzioni, e allo stesso modo ciò accade nel mondo della moda, soprattutto quando gli errori sono sotto l’inclemente obbiettivo di una macchina fotografica o di una telecamera.
Impossibile ripercorrere tutte le controversie che hanno interessato la storia delle grandi maison, che spesso e volentieri hanno amplificato la propria fama con scandali perfettamente architettati: basti pensare alla recentissima trash bag di Balenciaga, che il direttore creativo ha appositamente creato per ottenere una reazione dal mondo del web e ottenere ancora più visibilità.
Negli anni ’90 era la cosiddetta estetica da “cocaine model” a causare scalpore, e per buone ragioni: passerelle, riviste e figure del mondo della moda contribuivano a normalizzare una magrezza che spesso sfociava nell’anoressia e che incitava a perseguire uno stile di vita non salutare, se non mortale a lungo termine.
Oggi le controversie del fashion system sbocciano in dinamiche legate principalmente al rispetto culturale e religioso, nonché delle realtà locali; alcune personalità importanti dell’alta moda, come Tom Ford, si pronunciano assolutamente contrari di fronte a qualunque tipo di limitazione artistica, altri invece incoraggiano non tanto a non esprimersi, ma a studiare, ricercare e comprendere ciò che si vuole rappresentare e trasmettere con uno specifico capo.
Entra così in gioco la cosiddetta “Cancel Culture“, lo spauracchio delle celebrità, che prevede l’ostracismo per chi ha commesso atti gravi o non socialmente accettabili e per chi sembra non poter imparare dai propri errori.
Gucci è finita spesso sotto il giudizio del web, come nel caso del turbante utilizzato impropriamente in passerella (un’accusa di orientalismo che ha coinvolto quell’intera passerella del 2018) o come l’uso commerciale di un design sartoriale tradizionale proveniente da una piccola comunità in Romania, che dei ricavati non ha ricevuto neppure un centesimo.
Ha segnato un’epoca, invece, lo scandalo che coinvolse Chanel e Karl Lagerfeld nel 1994: in passerella appare un abito decorato con citazioni direttamente prese dal Corano, frasi decontestualizzate e applicate per pure motivazioni estetiche, e che per questo motivo hanno indignato le comunità musulmane di tutto il mondo e le autorità religiose del mondo islamico.
All’epoca Chanel corse subito ai ripari e Lagerfeld si scusò profusamente, ma nessuno si soffermò su ciò che aveva spinto il fashion designer a scegliere proprio il Corano per impreziosire l’abito: tra colonialismo, fascino orientalista, ignoranza superficiale e un senso di superiorità tutto occidentale, anche una buona intenzione può alimentare stereotipi, cattive abitudini e pura disinformazione.
La soluzione non è l’autocensura, né tanto meno sono soluzioni l’ostilità e la suscettibilità, ma l’unico modo per permettere il fluire della creatività, in un mondo saturo di sguardi e prospettive, è dialogare, informarsi e rispettare ciò che ci circonda.