Per quanto l’impatto della Pandemia sia stato ampiamente discusso nei contesti dell’economia e del mercato, meno diffuse sono le analisi che si sono invece soffermate sul mondo dell’arte e sull’industria dell’alta moda e, più precisamente, sulle metamorfosi che ne hanno cambiato modalità, linguaggi ed estetiche.
Nel fashion system l’emergere dell’essenzialità dell’evento, inteso come una commistione tra scenografia, colonna sonora, dinamismo in passerella e complicità tra modelli e abito, è una diretta conseguenza dell’intenso processo di digitalizzazione avvenuto durante la quarantena: uno show del passato, focalizzato sull’osservazione e le conoscenze del singolo, non avrebbe successo in una realtà come la nostra, troppo veloce e collettiva per permettere una semplice contemplazione estetica.
Oltre la moda, dunque, si afferma lo show: lo abbiamo visto con la visione di Alessandro Michele, che, accentuando la natura puramente concettuale delle proprie collezioni, ha conquistato audience sempre più ampie grazie a vere e proprie narrazioni visive, di estrema efficacia; anche se pensiamo a Coperni e all’abito spray realizzato in passerella su Bella Hadid, non possiamo negare quanto la spettacolarizzazione di quell’istante abbia contribuito a renderlo virale.
Oltre alla digitalizzazione, a plasmare il modus operandi delle sfilate è anche il pubblico: sempre più vasto, sempre più democratico, sempre più potente nella sua coesione digitale, gli utenti di tutto il mondo hanno contribuito, con i propri gusti e abitudini, a cambiare il concetto di fashion shows.
Come potrebbe, quindi, sopravvivere la semplice estetica quando il mondo si aspetta dinamismo e interazione? Tra chi prevede una scomparsa della passerella per come l’abbiamo conosciuta e chi, invece, ambisce a stabilire nuovi orizzonti e regole, ciò che possiamo intuire è che non ci sarà mai davvero una fine a questo continuo reinventarsi.