“Nell’arte non c’è Fascismo . E nel Fascismo non c’è arte”. Questo il motto che è stato alla base della conferenza tenutasi lunedì 29 giugno scorso a Villa Bertelli, a Forte dei Marmi, e a cui si ispira il percorso espositivo dedicato all’arte del Ventennio in corso a Rovereto al Mart, da parte della mostra “Arte e fascismo”, visitabile fino al 1 settembre prossimo.
Sono decine le esposizioni cui abbiamo assistito in questi anni che hanno avuto come fulcro centrale l’arte compresa nel ventennio fascista.
L’esposizione al Mart di Rovereto rende il Fascismo da sfondo storico motivo dominante, venendo considerato non più come un palcoscenico in cui gli artisti si trovavano ad agire, ma come un sistema capace di diventare incubatore di tendenze vitali diversificate, almeno l’unico caso in Europa nella storia dei regimi totalitari.
“Arte e fascismo – spiega una delle sue curatrici, Beatrice Avanzi – intende presentare in tutta la sua complessità e varietà la produzione artistica nel ventennio fascista, senza negazioni o reticenze, con la consapevolezza che la nostra storia non vada cancellata. Sappiamo senza dubbio che il Fascismo rappresenta il periodo più buio della nostra storia recente, ma Fascismo non significa arte di regime.
La mostra Arte e Fascismo analizza i modi vari e complessi in cui il regime fascista influenza la produzione figurativa italiana, utilizzando a fini propagandistici i linguaggi dell’arte e dell’architettura. Il ritorno all’antico, al funzionale, all’affermazione della tradizione italiana, trovò varie declinazioni, dallo sguardo rinnovato ai maestri antichi dei protagonisti del Novecento fino alle più radicali affermazioni di un’arte di propaganda rivolta alla costruzione del consenso. Il modello di una ritrovata armonia tra tradizione e modernità gode del sostegno da parte del regime, alla ricerca della definizione di un sistema organizzato delle arti. I nuovi luoghi del potere si trasformano in strumenti di affermazione attraverso un linguaggio aperto tanto al classicismo quanto al razionalismo, capace di coinvolgere l’arte murale, la scultura, l’architettura, tutte rinate sotto l’impulso di una volontà celebrativa rinnovata.
A introdurre il visitatore in questa rassegna è il ritratto giovanile di Margherita Sarfatti, risalente agli anni 1916-1917, realizzato da Mario Sironi; non ancora in linea con lo stile tipico dell’artista, si mostra come una prova acerba, non conclusa, quasi a simboleggiare il germe di tutti gli straordinari svolgimenti che negli anni seguenti conoscerà l’arte italiana nazionale.
Accanto ad esso si prosegue con un capolavoro maturo di Sironi, intitolato “Novecento” della metà degli anni Venti.
Sarfatti e Sironi sono sinonimi del movimento del Novecento, che si proponeva una tendenza di recupero dell’antico, accanto alla quale proliferarono molteplici propaggini dal secondo Futurismo al Realismo magico, dall’astrattismo geometrico ai primi movimenti antagonisti come “corrente” o la “Scuola Romana”. Se la tendenza di recupero dell’antico fu la prospettiva privilegiata e ufficiale di questo movimento, le propaggini che si svilupparono sarebbero state ben diverse.
La rassegna si articola in varie sezioni e comprende 400 opere, a partire dai lavori ispirati al culto della classicità e italianità propri di Novecento. Oltre a Sironi emergono Achille Funi con la ‘Terra’ del 1921, Giorgio Morandi con una ‘Natura morta’ dai toni bruni e ocra del 1929, Massimo Campigli con ‘Passeggiate delle educande’ ( 1929-1930), e Felice Casorati con ‘Beethoven’ ( 1928).
La sezione successiva è dedicata al Duce, si intitola “L’immagine del potere” e ha destato le maggiori polemiche, eccitando l’ipersensibilità dei rappresentanti della cancel culture. La mandibola e il cranio del duce, a differenza di quelli del suo omologo teutonico, sembravano fatti apposta per essere spalmati in forme scultoree arcaiche, come nel Condottiero di Ernesto Michahelles, detto Thayaht, o negli esemplari molteplici di Profilo continuo di Renato Bertelli. È anche presente la figura di Mussolini a cavallo in versione napoleonica, come appare ne “La prima ondata” del 1930 di Primo Conti.
Un’altra sezione esamina il ruolo del secondo Futurismo e l’esaltazione dell’azione e in questo caso, a dominare, è il genio loci, l’artista eponimo di Rovereto, Depero. Accanto alle sue opere dominano le grandi composizioni di Sironi e i bozzetti in bronzo per il monumento al duca d’Aosta, del 1934, di Arturo Martini. È anche presente un approfondimento sull’architettura e il suo rapporto con le arti, in particolare in considerazione delle realizzazioni dei maggiori architetti d’epoca, quali Marcello Piacentini, Giuseppe Terragni, Francesco Mansutti, Figini e Pollini, Adalberto Libera. Sono anche presi in considerazione i continuatori dell’astrattismo in Italia, come Manlio Rho o Mario Radice del quale si conserva un significativo studio per Mussolini a cavallo del 1935.
Nella sezione Nuovi Miti vengono esaminati i principali temi che l’ideologia fascista suggerisce agli artisti. Da un lato essi evocano un olimpo di atleti e grandi eroi, dall’altra padri di famiglia e lavoratori che forniscono il loro contributo per gettare le fondamenta economiche dello Stato.
Mitologie personali sono quelle proposte da De Chirico e Alberto Savinio. Il primo sta incubando i motivi della sua Seconda Metafisica, il secondo ha realizzato Le poète.
“Gli artisti – spiega la seconda curatrice Daniela Ferrari – furono in un certo senso indirizzati e aiutati da un governo che organizzò una serie di numerose mostre attraverso il Sindacato fascista delle Belle Arti e fece in modo che venissero riuniti in un sistema”.
L’epilogo della mostra è dedicato alla “Caduta della dittatura”, comprendente opere come le Fantasie di Mario Mafai o le immagini corrosive della serie Dux di Mino Maccari, eseguite nei primi anni Quaranta, capaci di svelare il lato.