Il deserto di Atacama è un luogo inospitale e arido, una landa desolata che fa capolino tra la catena delle Ande, con le sue vette gelide, e la Cordigliera della Costa, affacciata sulle acque blu profonde dell’Oceano Pacifico.
Qui la pioggia è rara, le temperature altissime e i centri cittadini estremamente esigui.
Ciò che non manca, tuttavia, sono i rifiuti, l’unica traccia di umanità che per chilometri e chilometri si alterna alle centinaia di dune che compongono il panorama: tra queste, non si può non notare una pila di vestiti di dimensioni gigantesche, una discarica a cielo aperto di capi invenduti e resi semplicemente scartati.
Secondo le stime degli esperti, questa montagna arriverebbe a pesare oltre 40.000 tonnellate e sarebbe visibile dai satelliti di SkyFi, applicazione di osservazione dati terrestri, come la discarica di Mbeubeus in Senegal e di Bekasi in Indonesia.
Tra questi scarti si scorgono gli abitanti dei villaggi e delle città vicine, in cerca di tessuti riutilizzabili o da rivendere seppur, talvolta, siano proprio queste lande di rifiuti a diventare l’unica casa possibile per le comunità più isolate e povere, spesso impiegate nelle stesse fabbriche degli orrori che producono abiti senza sosta a poco prezzo.
Ciò che accomuna queste realtà apparentemente lontane sono i milioni di abiti prodotti dai brand di fast fashion come SHEIN, Temu e Wish non acquistati dai consumatori o i capi difettati e per questo rifiutati da altri negozi: tessuti sintetici e plastica si combinano in un cocktail di sostanze inquinanti fortemente dannose per gli ecosistemi locali, che contribuiscono alla dispersione di microplastiche, alla produzione di acque reflue e alle emissioni di gas serra.
Il Cile, e in particolare l’area di porto Iquique, rappresenta una sorta di zona franca per le industrie tessili di Cina, Vietnam, Pakistan, India e Bangladesh, tanto che ogni anno qui sbarcano circa 60.000 tonnellate di vestiti usati all’anno.
Un ciclo che non sembra aver intenzione di interrompersi e che promette un futuro di deserti come quello di Acatama, un fato che soltanto controlli più stringenti alle aziende e fabbriche fast fashion potranno evitare.