Ormai la terribile natura di Shein è sotto gli occhi di tutti, il prevedibile epilogo di un mercato consumista, saturo di richieste e sempre più avido.
Non è la prima volta che la reputazione del gigante della fast fashion cinese finisce nel mirino del grande pubblico, data la totale assenza di trasparenza in merito all’approccio ambientale dell’azienda e al trattamento dei lavoratori: oggi questi dati dipingono uno scenario da incubo, identico a quello di centinaia di migliaia di altre fabbriche dislocate in tutto il mondo.
Channel 4, ente televisivo britannico, ci trasporta così nei corridoi asettici delle grandi catene di montaggio di Shein, un susseguirsi di macchinari e pile di abiti pronti per essere aperti, spacchettati sui social e dimenticati nei meandri di un armadio; l’inchiesta (Untold: Inside the Shein Machine), condotta da Iman Amrani, esplora due fabbriche dislocate nella città cinese di Guangzhou, conosciuta in occidente con il nome di Canton.
Turni di diciotto ore con un solo giorno di riposo al mese, una produzione obbligatoria di 500 capi al giorno per ogni dipendente e uno stipendio mensile di 4000 yuan (circa 550 euro), che tuttavia non viene rilasciato ai dipendenti durante il primo mese di lavoro; tra un top da 4 centesimi all’ora e l’altro, le lavoratrici (in gran maggioranza, infatti, queste strutture sfruttano donne e bambini) si lavano i capelli o chiudono gli occhi per qualche secondo, per riposarsi mentre il resto delle macchine da cucire continua, inesorabile, a ripetersi meccanico.
Inutile essere sconvolti, dato che da anni personalità dei social media ed esperti avevano avvisato della natura pericolosa e inumana di queste vere e proprie catene di montaggio: la verità è che l’avidità e la voglia di avere di più superano l’empatia e il rispetto che si dovrebbero provare nei confronti di queste persone, costrette a una forma di schiavismo tutta contemporanea, e dell’ambiente, che grazie a questa enorme quantità di scarti tessili si consuma e marcisce con molta più efficienza.
Vittime principali di questo meccanismo letale sono, appunto, donne e bambini, le categorie economicamente più fragili e perciò continuamente esposte a sostanze tossiche, un pericolo per l’ambiente insieme al consumo d’acqua e all’inquinamento dovuto una continua produzione di scarti di materiale tessile; un’altra accusa rivolta a Shein è quella di plagio, dato che l’apparentemente infinita mole di stili, innovazioni e trend proposta dal marchio non è altro che un continuo furto di idee a brand più piccoli o meno.
La risposta di Shein all’inchiesta di Channel 4 è arrivata fulminea: le fabbriche che appaiono nel documentario non apparterrebbero all’azienda cinese, che rassicura il pubblico di tutto il mondo, citando un fantomatico “Codice di Condotta” concordato con ogni fornitore del marchio.
“Qualsiasi non conformità a questo codice viene gestita rapidamente e porremo fine alle collaborazioni che non soddisfano i nostri standard. Gli standard Shein’s Responsible Sourcing vincolano i nostri fornitori a un codice di condotta basato sulle convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro e sulle leggi e normative locali, comprese le pratiche di lavoro e le condizioni di lavoro” la dichiarazione prosegue poi con una promessa. “Collaboriamo con le principali agenzie indipendenti per condurre audit senza preavviso presso le strutture dei fornitori”.
Insomma, Shein ha giocato la carta dell’omertà, negando e preoccupandosi per ciò che Channel 4 ha riscontrato nelle due fabbriche di Guangzhou, ma non ha fornito, ovviamente, alcuna prova che contrastasse quanto mostrato in televisione.
Quello che si può sperare è che i consumatori sviluppino una coscienza a tutto tondo grazie a questo servizio, e che scelgano di rinunciare all’ennesimo Shein haul sui social o a un acquisto da centinaia di euro dell’ultimo minuto: riuscirà l’umanità a vincere sull’immagine? Solo il tempo potrà dirlo.