Difficilissimo seguire e comprendere le minime variazioni che talvolta caratterizzano il mercato dell’alta moda: in uno scenario di perdite, crescita e stagnazione non sempre si riescono a delineare i punti di forza e le cadute di stile che hanno implicato il successo o meno di una specifica strategia; è stato il marketing? La collezione proposta? Un commento di troppo sui social?
Nell’incredibile macchina delle industrie moderne è per questo impossibile stabilire davvero chi sia davvero “al volante”, e se parliamo di alta moda, la percezione del pubblico ne risulta ancora più sfalsata. Molti, infatti, pensano che siano i direttori creativi, i designer, gli stilisti a guidare le più grandi maison del mondo, una sorta di “fashion-crazia” in cui è l’artista stesso a definire ogni singolo aspetto riguardante le proprie creazioni.
Tuttavia, una recente analisi dell’appena terminata Milano Fashion Week mette in risalto qualcosa di ben diverso: non è stata un’edizione apprezzata dai critici, che l’hanno descritta come “commerciale” e “prevedibile” e i colpevoli di queste scelte scadenti non sarebbero i designer, quanto più i CEO, i dirigenti delle grandi case di moda.
“Sono loro a prendere le vere decisioni, oggi“, scrive infatti Angelo Flaccavento su Business of Fashion, “e i piani che concepiscono sono assai prevedibili: attirare giovani consumatori e creare prodotti che diventino hit commerciali”.
Creare, consumare, vendere, ricominciare.
Un ciclo di produzione che ha l’economia e il guadagno come interesse primario, e che come conseguenza principale, secondo Flaccavento, ha un’assenza di sostanziale spontaneità nell’industria dell’alta moda. Ad alimentare questa filosofia, anche i diversi interessi che riguardano direttamente designer e CEO: se infatti uno stilista brama e teme le critiche di pubblico e critici, un CEO sogna vendite incredibili e una crescita continua dei propri margini di profitto.
Un ruolo di estrema rilevanza, dunque, ma anche altrettanto effimero.
Secondo Vogue Business, infatti, in media un CEO rappresenta un brand per soltanto cinque anni, venendo sostituendo poi da un altro dirigente. Esistono eccezioni a questa regola, come accade nel caso di Gucci (direttore creativo e CEO, infatti, hanno trovato un equilibrio artistico ed economico incredibilmente di successo), una prova concreta di quanto questi due ruoli siano essenziali per il corretto funzionamento di marchio e di un’azienda.
Ormai è tramontata la visione del creativo tormentato, costretto dalle necessità economiche di un’azienda dispotica e autoritaria: il successo nell’alta moda raggiunge apici mai visti prima se mondo creativo e mondo strategico si supportano in una relazione di consapevole e ricercata simbiosi.