Nel cuore dello Studio Ovale, lontano dai consueti tavoli diplomatici, sei tra gli imprenditori più influenti della Svizzera si sono presentati con due regali molto particolari: un lingotto d’oro e un orologio di alta gamma. Non un semplice corteggiamento di gala, ma parte di una strategia ben calcolata per disinnescare l’attuale stallo dei dazi statunitensi sulla merce elvetica — che si attestano intorno al 39 %.
La missione — privata ma pienamente rappresentativa della Svizzera industriale — ha visto protagonisti alti dirigenti come Jean‑Frédéric Dufour (CEO di Rolex), Johann Rupert (presidente di Richemont), Alfred Gantner (co-fondatore di Partners Group), Daniel Jaeggi (co-fondatore di Mercuria), Marwan Shakarchi (alla guida di MKS PAMP) e Diego Aponte (presidente di MSC Mediterranean Shipping Company).
Un gesto carico di significato
L’offerta dell’orologio e del lingotto non è soltanto un dono di cortesia: è un simbolo. In un mondo in cui le tariffe doganali minacciano l’equilibrio economico, la Svizzera — attraverso il suo “avamposto” industriale — ha scelto di parlare diretto con Washington, senza passare esclusivamente attraverso vie diplomatiche istituzionali. L’azione segna un cambiamento nel modo in cui le imprese svolgono un ruolo da protagoniste nelle relazioni internazionali.
All’incontro non era presente alcun negoziato formale, né un mandato ufficiale: come sottolineato da fonti svizzere, i dirigenti hanno sottolineato «la convinzione che un accordo bilaterale rafforzerebbe in modo significativo gli scambi economici» tra i due Paesi.
Oltre il regalo: investimenti e aperture
Durante l’incontro sono emerse alcune aperture concrete: tra queste, la promessa di investimenti miliardari da parte delle società elvetiche nel mercato statunitense, in settori come l’energia, le infrastrutture e la lavorazione dell’oro.
L’obiettivo ufficiale: ridurre il deficit commerciale statunitense nei confronti della Svizzera e alleggerire la pressione dei dazi, lasciando filtrare l’ipotesi che l’alta orologeria e i metalli preziosi possano diventare strumenti di diplomazia economica.
Le resistenze a Berna
Tuttavia, l’operazione non ha raccolto un consenso unanime in patria. Partiti come il centro, l’UDC e il PS hanno espresso preoccupazioni relative all’idea che la Svizzera possa finire per allinearsi troppo passivamente alle politiche sanzionatorie di Washington — in particolare nei confronti della Cina.
Si tratta di un nodo non secondario: l’equilibrio diplomatico svizzero — tradizionalmente neutrale — potrebbe venir messo alla prova da una simile “mossa d’impresa”.
Nonostante il gesto mediatico e l’apertura simbolica, non è stato firmato alcun accordo formale. Il lavoro che dovrà seguire è pesante e ufficiale: la delegazione privata ha infatti trasmesso plenarie relazioni al Consiglio federale e alla Segreteria di Stato dell’economia (SECO), che dovranno valutare le implicazioni politiche e commerciali.
Va inoltre considerato che il vero banco di prova arriverà con la partecipazione svizzera al prossimo Forum economico mondiale di Davos, dove potrebbe essere siglato un accordo più strutturato.
Quando un dono in oro e un orologio diventano tasselli di una strategia internazionale, si capisce che la diplomazia si è fatta anche — e forse soprattutto — fatta d’impresa. La Svizzera, con la sua tradizione di eccellenza industriale e libertà economica, ha scelto una “via imprenditoriale” per dialogare con Washington: non più soltanto governi e trattati, ma leader aziendali che sanno scommettere sul proprio peso globale. Restano da vedere i risultati concreti, ma il gesto lascia già un segno: nell’era della globalizzazione turbolenta, anche l’oro e l’orologio possono diventare strumenti di pace commerciale.


