Nel silenzio di una residenza nella cittadina di Kent, in Connecticut, l’era più controversa della politica statunitense e internazionale si spegne con la morte dell’ormai centenario Henry Kissinger, un nome che ha accompagnato, come un lugubre eco, alcuni degli eventi più drammatici e controversi della storia nord americana.
Dalla guerra in Vietnam al colpo di stato in Cile del 1973, che causò la morte del presidente Salvador Allende e la conseguente ascesa di Augusto Pinochet, Kissinger si è distinto per un atteggiamento politico amorale, volto a optare per pragmatismo e utilitarismo sopra ogni altra cosa.
Di origini ebreo-tedesche, Kissinger nacque in Baviera, ma emigrò a New York in seguito all’avvento delle prime persecuzioni anti-semitiche in Germania e lì proseguì la propria formazione, prima studiando ragioneria e poi, dopo la partecipazione alla Seconda Guerra Mondiale, iscrivendosi ad Harvard per specializzarsi in scienze politiche.
“Ciò che mi interessa è quello che si può fare con il potere” aveva dichiarato l’ex Segretario di Stato degli Stati Uniti durante un’intervista del 1972 diretta da Oriana Fallaci, e nessun’altra frase potrebbe riassumere al meglio il profilo politico e storico di un uomo che dedicò la sua intera carriera a tutelare e coltivare gli interessi statunitensi attraverso il suo ruolo di spicco nel partito Repubblicano.
Grazie alla sua influenza e alla sua grande intuizione, infatti, il governo Nixon aprì per la prima volta un dialogo con la Cina comunista e inaugurò un periodo di distensione con l’Unione Sovietica; il suo ruolo nel panorama diplomatico internazionale, inoltre, gli garantì un Nobel per la Pace (seppur particolarmente contestato).
Machiavellico e senza scrupoli, Kissinger lascia agli Stati Uniti un’eredità scomoda, una prova tangibile di un successo nazionale forgiato nel sangue di milioni di persone, con cui non soltanto dovrà confrontarsi il presidente Joe Biden, ma anche la totalità della classe politica americana.