Esattamente come accade con i pezzi d’arte contemporanea più complessi e concettuali, anche l’alta moda può essere incompresa dal grande pubblico, se non semplicemente denigrata per la sua natura anomala, poco pratica e astratta.
Gli esempi sono molteplici, e riguardano singoli capi come intere tendenze di nicchia: basti pensare alla moltitudine di subcultures che costellano le grandi città e il mondo del web, una varietà di modalità di espressione dai codici non immediati, come il gotico, il ritorno dell’emo scene, il Y2K più sperimentale e la cosiddetta moda “apocalittica”.
Proprio quest’ultima ha seminato zizzania su Instagram e TikTok: si tratta di un movimento che punta alla decostruzione della moda, e che del layering ha fatto un’arte; colori neutri, grigi, neri o earth tones, tessuti bucati e silhouette dinamiche creano abbinamenti che sembrano emersi da una desolazione nucleare, soprattutto se abbinati a grandi anfibi dal sapore militare o accessori di utility.
La critica mossa nei confronti dell’apocalyptic fashion riguarda trasformare il degrado dell’abbigliamento in alta moda, una sorta di gentrificazione dell’usato e dei tessuti danneggiati, che romanticizza la povertà senza averla mai vissuta.
Altrettanto criticata è stata la gonna mini proposta da Diesel, dal puro sapore Y2K e dalle proporzioni da bambola: si tratta infatti di una gonna in pelle cortissima, che non riesce neppure a coprire interamente una ragazza che indossa, solitamente, la taglia 38 e dunque impossibile da sfoggiare al di fuori della passerella.
Essenziale è distinguere abbigliamento e moda, perché se la natura stessa dei capi d’abbigliamento implica un comfort e una praticità necessarie, l’alta moda non deve essere dipendente della vita di tutti i giorni: può arrivare nelle strade e quando ciò accade si carica di un’intensità diversa, più concreta, ma sarebbe ingiusto giudicare esempi di arte tessile e concettuale per la propria utilità.