Un tema sempre più rilevante quello della cosiddetta “democrazia della moda“, un paradosso inspiegabile che ha come obbiettivo un’inclusività totale, un’accessibilità assoluta e una sorta di comunismo capitalista, dove il concetto di marchio può sopravvivere senza essere riservato a pochi eletti.
Prova che ci sia aria di cambiamento è ciò che è accaduto durante la Milano Fashion Week, pantheon dell’opulenza e dell’esclusività, che per la prima volta nella storia ha ospitato numerosi fashion shows gratuiti, aperti a un’enorme quantità di spettatori (come, ad esempio, hanno fatto Diesel e Anteprima), oppure anche durante la grande parata di VogueWorld: New York, svoltosi per le strade di Manhattan, sotto le finestre di migliaia di cittadini.
Questa spinta verso una moda egualitaria non deve sconvolgere. Infatti, si tratta di una concezione che va di pari passo con quella di moda sostenibile e per tutti, e che invece oppone i grandi nemici dell’alta moda come il consumismo fast-fashion e un mercato saturo di acquisti low-cost continui.
Tra i pionieri della democrazia moda, troviamo il rapper e designer Kanye West, che in merito al suo marchio (Yeezy Supply) afferma: “Gli occhiali costeranno 20 dollari e tutto ciò che si trova su Yeezy Supply costerà 20 dollari. E stiamo lavorando su come rendere gratuito l’abbigliamento. Perché la vita è gratis“.
Un concetto rivoluzionario, che va a soverchiare secoli di tradizione luxury europea, ma che soprattutto rivela le enormi controversie che si celano sul libero mercato: quando Kanye West dichiara che “la vita è gratis” a quale vita si sta riferendo? Cosa rende differenti i suoi prodotti, se il loro costo sarà identico a quello di centinaia di migliaia di brand low-cost che sono sempre stati accessibili?
Il tentativo di West di colmare l’oceano tra azienda, mercato e consumatore non fa altro che acuire differenze di per sé già evidenti: ciò che fa la differenza è infatti soltanto il nome, il volto dietro all’accessorio, un’identità che unita a prezzi stracciati garantirà un buon successo di Yeezy Supply, ma che andrà ad alimentare la fabbrica consumista della fashion industry; insomma, è più probabile che le ultime creazioni di West finiscano a inquinare l’oceano rispetto al diventare accessori must-have di tendenza.
Da un certo punto di vista, potremmo definirla una mossa populista, ancora complice del sistema che del lusso ha fatto uno status e soprattutto un must; l’industria della moda si ritrova così a vivere un bipolarismo assoluto: bene pubblico e oggetto della cultura di massa, certo, ma anche un simbolo, un marchio, un qualcosa in più che non tutti possono permettersi.
Se la Milano e la New York Fashion Week ci hanno dimostrato che è possibile creare un compromesso, una via di mezzo tra due realtà parallele e distanti, la praticità della vita di tutti i giorni ci ha dimostrato che la moda democratica non è ancora possibile.
Resta così un’ideale, un sogno, il meccanismo perfetto per una vita gratis ancora riservata a pochi.