L’industria della “fast-fashion“ è la prima a danneggiare l’ambiente per emissioni e consumi, impattando così anche la vita dei lavoratori, spesso sfruttati ed esposti ad agenti chimici altamente pericolosi: produrre un vestito nuovo, in una catena di montaggio incapace di fermarsi, ha di conseguenza un effetto terribile su una situazione ambientale già instabile.
L’alternativa e la soluzione a questo fenomeno è comprare abbigliamento di seconda mano, un trend che si è rivelato una vera e propria salvezza per gli appassionati e i consumatori. A dimostrarlo è il primo impact report di Vestiaire Collective, app di rivendita di moda lanciata a Parigi nel 2009, che oggi è un’azienda certificata B Corp con uffici a Parigi, New York, Los Angeles, Hong Kong, Seoul e Singapore.
Secondo la ricerca, in collaborazione con PwC, il costo ambientale per ogni acquisto di seconda mano sulla app è di 0,39 euro, un decimo di quello di un acquisto nuovo, mentre in termini di emissioni ogni articolo “preloved” permette di risparmiare 17 kg di CO2 rispetto a un abito nuovo; inoltre il 70% dei clienti intervistati di Vestiaire Collective (2.363 consumatori provenienti da 57 paesi) ha preferito acquistare un capo second-hand rispetto a un articolo appena prodotto e soltanto il 10% ha usato i propri ricavati dalla rivendita per acquistare nuovi abiti.
Le aziende di rivendita stanno esponenzialmente costellando il panorama della fashion mondiale: la loro quota sul mercato raddoppierà dal 9% al 18% tra il 2022 e il 2030, anno in cui il numero di articoli rivenduti, secondo Vestiaire Collective, farà risparmiare al pianeta 38 miliardi di euro in costo ambientale.