Franco Martinetti, gourmet e produttore di vino, è stato uno dei primi a comprendere il legame tra sapori e sapere, riflettendo sul profondo significato etimologico di questi due concetti. Non solo un amante del cibo, Martinetti ha contribuito a una vera e propria rivoluzione nel mondo del vino, in particolare in Piemonte, negli anni Novanta. Fu il primo italiano a entrare nell’Académie du Vin de France e nel 2003 ne divenne presidente dell’Académie Internationale du Vin.
Negli anni Ottanta, come pioniere, organizzava eventi gastronomici che esploravano il rapporto tra cibo e vino, promuovendo discussioni che andavano oltre la semplice degustazione, spingendo alla valorizzazione del prodotto e alla rimozione di pregiudizi. La sua passione per i vini francesi e il suo impegno nel promuovere vitigni meno conosciuti, come il Timorasso, hanno avuto un impatto significativo sulla viticoltura piemontese, arricchendo la cultura enologica del territorio. La sua vita ci insegna che il vero piacere del gusto nasce dalla conoscenza, dalla curiosità e dalla convivialità, valori che incarnano l’essenza della gastronomia come arte e scienza del ben vivere.
“Quando hai iniziato nel mondo del vino, quali sono state le tue prime impressioni e le principali sfide che hai affrontato?”
Nel ’72 ho iniziato a produrre vini piemontesi. All’epoca il mondo del vino era completamente diverso da oggi: i vini venivano venduti principalmente in damigiana, e i clienti si occupavano personalmente dell’imbottigliamento. Io, invece, decisi di creare una linea di vini già imbottigliati, concentrandomi soprattutto su quelli del territorio astigiano. Questo legame con l’Astigiano deriva dalle mie origini: i miei bisnonni erano del Monferrato, anche se io, i miei genitori e i miei nonni siamo nati a Torino.
Nonostante ciò, ho sempre sentito un legame con il Monferrato, in particolare con la Barbera. Uso il termine al femminile perché, per me, la Barbera è donna, a differenza del Barolo. Ho iniziato producendo Barbera, per poi creare una linea di vini piemontesi che, pur avendo un costo contenuto, erano già di qualità superiore alla media. All’epoca, il vino si consumava in modo diverso: nei ristoranti si sceglieva semplicemente tra “bianco” e “rosso”, senza una vera carta dei vini.
Non avendo vigneti né cantine, essendo di Torino, ho trovato un modo innovativo per fare vino: affittavo cantine da amici, portavo le uve e vinificavo personalmente. Questo approccio ha suscitato critiche da alcuni, che ritenevano indispensabile possedere un vigneto per produrre un vino di qualità.
La mia risposta è semplice: ciò che conta è il risultato. Come uno chef trasforma materie prime eccellenti in piatti straordinari, io scelgo uve di qualità e le lavoro con cura per creare un grande vino. La proprietà del vigneto o della cantina non garantisce automaticamente la qualità del prodotto.
Era il 1988 o 1989 circa, e mi trovavo in California per lavoro. Avevo un importatore e un rappresentante di origine italiana, che mi accompagnava a visitare diversi locali. A un certo punto, organizza per me un appuntamento con un giornalista del Los Angeles Times.
Mi intervista, e all’epoca, senza telefonini, le foto si facevano con le macchine fotografiche. Questo giornalista mi scatta delle foto mentre gli racconto come producevo il vino. Rimane sbalordito e, a un certo punto, mi dice: “Ma lei è un genio!” Io, un po’ incredulo, gli rispondo: “Un genio? No, sono solo una persona normalissima che ha cercato di fare di necessità virtù.” Gli spiego che, non avendo vigneti né cantine di proprietà, affittavo le cantine e compravo l’uva. Tutto qui.
E lui insiste: “Sì, ma ha trovato un modo diverso di fare le cose.” Così, con mia enorme sorpresa, mi dedica un’intera pagina sulla seconda pagina del Los Angeles Times.
Quella recensione ebbe un’eco incredibile. Tanto che, due anni dopo, torno in California e decido di invitarlo a pranzo per ringraziarlo, sempre con il mio rappresentante. Durante il pranzo, gli esprimo tutta la mia gratitudine per quel bellissimo articolo, perché non capita tutti i giorni di finire sul Los Angeles Times.
E lui mi dice: “Sa una cosa? Da quell’articolo sono nati 7 o 8 nuovi produttori. Erano professionisti – avvocati, medici, ecc. – che si sono ispirati a quello che lei aveva raccontato. Sia a Napa che a Sonoma, hanno comprato vigne o stretto accordi con determinati produttori per fare vino.”
Nel corso degli anni, hai ampliato significativamente la tua carta dei vini introducendo delle novità interessanti. Come sei arrivato a questa scelta e che ruolo ha avuto la Barbera in questo percorso ?
Negli anni, ho iniziato a produrre una Barbera semplice, senza grandi pretese, ma ad un certo punto ho deciso di sperimentare qualcosa di diverso. Credo di essere stato uno dei primi, se non il secondo in Italia, a produrre una Barbera in barrique. Questo è avvenuto grazie alla mia grande amicizia con Giacomo Bologna, che aveva creato il celebre Bricco dell’Uccellone, un vino che ha riscosso un immediato successo.
Ricordo che nel 1984, durante il Salone del Vino BP a Torino, ho avuto l’opportunità di presentare alcune bottiglie ancora in fase sperimentale di quella che sarebbe diventata la mia Barbera in barrique. Sebbene non fosse ancora in commercio, l’annata sperimentale ha suscitato l’interesse di personalità di spicco come Luigi Veronelli, Mario Soldati e Gianni Brera, presenti a quella serata memorabile. La prima annata ufficiale è del 1984.
Su consiglio di Giacomo, ho creato il Mont Roche, poi ribattezzato Montruc, un nome che richiama la tradizione francese che mi ha sempre affascinato. Nonostante l’annata 1984 non fosse eccezionale, il vino ha avuto subito successo, soprattutto con l’annata 1985, che si è rivelata ottima. Credo che con questa innovazione siamo riusciti a trasformare la Barbera: da vino da osteria a vino di prestigio, adatto ai salotti e alle occasioni importanti, elevandone il valore e la reputazione.
Hai avuto anche un ruolo molto importante in un periodo storico difficile perché tutti sanno cosa è successo nel ’87 con lo scandalo metanolo
Negli anni ’80, il Montruc che vendevo lo presentavo come vino da tavola. Se l’avessi chiamato Barbera, con lo scandalo che c’era stato all’epoca, non avrei venduto nulla. Così lo etichettavamo come “vino da tavola”, più genericamente come “vino da tavola del Piemonte”. Il nome era semplice ma comunque qualificante e qualificato.
C’è però un discorso interessante sulla Barbera che vorrei affrontare. Abbiamo detto che la Barbera è una femmina, e infatti ci sono due “belle Barbere”, proprio come due belle donne: una è quella d’Asti e l’altra è quella d’Alba.
Ad Asti, per esempio, non hanno il Nebbiolo, quindi sulle sommità delle colline piantano la Barbera. E lo fanno nei luoghi più soleggiati, esposti, e favorevoli. Questo ovviamente si riflette sulla qualità, che diventa evidente.
Proseguiamo, parlando dell’altro rosso piemontese per eccellenza, il Barolo.
Il Barolo è maschio, ed è il motivo per cui l’ho chiamato Marasco, quando lo assaggi rivela un profumo di marasca: la ciliegia nera con cui si produce il maraschino. Non potevo però chiamarlo Marasca, perché è un nome femminile. Così l’ho trasformato in un nome maschile.
Non lo produco da molto tempo, perché trovare una cantina nella zona del Barolo non è semplice, dato che puoi produrre questo vino solo lì. Però ormai sono 27 anni che lo faccio, quindi di certo non è una cosa recente.
Parliamo dei vini bianchi
Il bianco che ha rappresentato una vera svolta per me è stato il Gavi. Ho iniziato a produrlo nel 1984 e, fin da subito, l’ho affinato in barrique, una pratica del tutto innovativa all’epoca. Quando ho portato le prime barrique nella cantina dove producevo il Gavi, mi hanno guardato con curiosità, chiedendomi cosa fossero quegli “strumenti strani”. Allora si utilizzavano quasi esclusivamente vasche in cemento; l’acciaio era già considerato una novità.
Questa scelta mi ha permesso di dare al Gavi uno stile un po’ “alla francese”, ispirato alla Borgogna. E devo dire che è stato un successo. Pensate, la settimana scorsa ho aperto un magnum di Gavi dell’85 ed era di una bontà straordinaria, veramente incredibile.
Personalmente, lo trovo perfino più affascinante del Timorasso, anche se non posso affermarlo con certezza, perché ho una storia più lunga con il Gavi: l’ho prodotto ben 12 o 13 anni prima di cominciare con il Timorasso.
Tutti associano il Timorasso a Walter Massa, e sì, lui è stato indubbiamente uno dei padri. Ma io penso che i padri, in realtà, siano stati due: Walter Massa, sicuramente, e poi tu.
Um giorno mi sento con la mia amica Antonella Bocchino, che aveva deciso di produrre grappe monovitigno, seguendo il consiglio di Veronelli, come facevano e fanno tuttora i Nonino. Voleva realizzare una grappa di Moscato e una di Timorasso.
Un giorno mi chiese: “Senti, tu che conosci il Timorasso, non potresti aiutarmi?”. Era il 1985, e all’epoca non c’erano veri e propri vigneti di Timorasso. C’erano soprattutto filari di Cortese, in cui qua e là spuntavano alcune piante di Timorasso. Non si poteva vinificarlo separatamente, perché ce n’era troppo poco.
Mi misi a girare per due giorni, visitando 17 o 18 produttori, comprando piccole quantità: 30 chili, 40 chili, 25 chili, fino a 50 chili. Alla fine, riuscii a raccogliere abbastanza uva per poter vinificare. Quello che interessava ad Antonella erano le vinacce, quindi mi concentrai principalmente su quello.
Il vino che ne uscì era discreto, ma devo dire che non ci misi troppo impegno: il mio obiettivo era ottenere le vinacce, non fare un grande vino. Dopo quell’esperienza, non ci riprovai più: era una fatica immensa mettere insieme i quantitativi necessari.
Anni dopo, credo al Vinitaly del ’96 o ’97 incontrai Walter Massa. Mi disse: “Ma perché non fai Timorasso?”. Gli risposi: “Guarda, Walter, l’ho fatto nell’85, ma ho lasciato perdere”. Lui replicò: “Tu fai un Gavi particolare, perché non ci provi?”.
A quel punto mi spiegò che aveva piantato due piccole vigne di Timorasso e che poteva fornirmi dell’uva. Accettai e decisi di produrre un Timorasso con la stessa tecnica del Gavi, usando le barrique. All’epoca, fui l’unico a vinificarlo in barrique.
C’era anche una logica dietro: produrre un vino in barrique costa molto più che farlo in acciaio, ma se lo vendi allo stesso prezzo, il margine di guadagno è maggiore rispetto a chi lavora solo in acciaio. Il costo della barrique e della sua gestione, però, è un investimento significativo.
Così iniziai a produrre Timorasso, un po’ per fortuna e un po’ per intuito. Il successo arrivò subito: Enzo Vizzari scrisse sul Corriere della Sera che era il miglior vino bianco italiano. Anche Veronelli, che all’epoca aveva un’immagine e un seguito molto importanti, scrisse lo stesso.
Sono stato a Parigi e ho inviato il Timorasso anche a New York. L’ho fatto perché ho degli importatori in Giappone, e questo ha attirato l’attenzione dei giornalisti locali, che hanno “cavalcato la tigre”, per così dire, contribuendo a far parlare positivamente di questo vino. Non voglio prendermi tutto il merito, ma probabilmente sono stato tra i primi a promuoverlo.
Il successo è poi arrivato, e Walter oggi produce moltissime bottiglie, ha piantato nuove vigne ed è ormai una figura di riferimento per il Timorasso nella zona. Lui stesso, però, mi diceva spesso: “Se un giorno dovessero farmi un piccolo monumento mi piacerebbe che ci fosse vicino a me anche il tuo nome. Sei stato tu a farlo conoscere”.
E arriviamo al Metodo classicco Quarantatre.
A un certo punto ho deciso di fare un metodo classico. Mi sono chiesto come realizzarlo e alla fine l’ho fatto. Sono andato nell’Oltrepò Pavese e ho iniziato a lavorare con Pinot Nero e Chardonnay.