Perché ostentiamo ciò che possediamo? Quale meccanismo ci spinge a sfoggiare ciò che più consideriamo prezioso? Si tratta di un comportamento sociale per raccogliere approvazione e consensi o un messaggio ostile, arrogante, un chiara dichiarazione di superiorità nei confronti del prossimo?
“Opulence. You own everything!” è una delle frasi grazie a cui il docufilm Paris is Burning è entrato nell’immaginario comune. Rilasciato nel 1990, il lungometraggio è una struggente e intima testimonianza della ball culture newyorkese ossia la scene gay, trans e drag della Grande Mela durante gli anni ’80 e ’90 del ventesimo secolo; la citazione significa letteralmente “Opulenza. Tutto è tuo!” e nel contesto della ball culture si riferisce alla capacità dei performer di realizzare abiti, costumi e accessori sfarzosi e d’alta moda pur utilizzando materiali di scarto o capi di seconda mano per trasformarsi in veri e propri cittadini di classe A, ricchi, raffinati e, ovviamente, più che pronti a sfoggiare i loro gioielli più preziosi.
Di conseguenza l’opulenza e l’ostentazione in questo mondo sono strettamente legate all’esibizione in uno spazio comunitario e sicuro, che avrebbe compreso i codici e le modalità comunicative utilizzate: si trattava, inoltre, anche di un modo per scappare (almeno metaforicamente e per una notte) dalla vita di strada a cui molti dei componenti della comunità LGBTQ+ si erano ormai abituati (era altissima, infatti, la presenza di adolescenti cacciati di casa e ridotti a vivere di stenti nei quartieri di New York).
Sempre nello stesso periodo era anche la musica rap a parlare di opulenza.
Per il mondo dell’hip-hop l’ostentazione coincide con il flexing, verbo che tecnicamente si riferisce al gesto di mettere in mostra i propri muscoli e la propria forza, ma che nello slang americano ha assunto, appunto, il significato di ostentare la propria ricchezza.
Una filosofia di vita che si affianca ad altri codici comportamentali e temi, come quello della vendetta, della dura vita di strada e, soprattutto, del farsi da sé: essere self-made e poter flexare i propri beni di lusso (automobili, orologi, diamanti e via dicendo) è già una dichiarazione forte, che racconta una storia di lotta, tenacia e successo.
I loghi delle grandi maison del lusso qui ricoprono un ruolo essenziale ed il primo a elevarli a simbolo di status è stato Dapper Dan, sarto di Harlem soprannominato il “Re del falso“: la sua boutique era un punto di riferimento per tutti coloro che ambivano al lusso senza poterselo permettere, e alcuni dei suoi dupes hanno vestito figure poi diventate celebri, come LL Cool J, Mike Tyson e Floyd Mayweather; nota caratteristica delle creazioni di Dapper Dan è l’utilizzo ossessivo delle stoffe monogram d’alta moda, un’intuizione geniale che ha anticipato di gran lunga l’attuale trend dell’upcycling.
La moda qui diventa davvero democratica, poiché l’arte di Dapper Dan la trasforma in un bene pubblico, esattamente come nella ball culture: non a caso entrambi questi mondi erano in gran parte frequentati da afroamericani, gruppi latinoamericani e minoranze etniche, comunità spesso costrette a coesistere e ben volentieri associatesi in vere e proprie alleanze di quartiere, l’unico modo per sopravvivere in una società bianca ed elitaria.
Per rispondere, quindi, alle domande di poco fa, potremmo dire che ostentiamo per affermarci, per riconoscerci, per farci forza: il lusso diventa un ingrediente essenziale per distaccarsi dalla vita anonima e talvolta difficile che ci riporta duramente alla realtà ogni giorno, ma al tempo stesso emerge come un collante tra gli individui, un linguaggio segreto che soltanto le persone giuste possono comprendere.