L’aumento vertiginoso dei prezzi nel settore della moda è solo la punta di un iceberg di consumi e cifre astronomiche che, invece, già coinvolge ogni ambito della vita di tutti i giorni, dal consumo energetico fino ai beni di lusso.
Fondamentalmente ciò che già costava, adesso costa ancora di più, mentre marchi prima abbordabili e low-cost si stanno avvicinando a prezzi esorbitanti, distaccandosi così dal loro scopo originale: poter essere acquistati senza difficoltà anche da un cittadino nella media, e non solo dai membri delle classi sociali più abbienti.
In Italia questo fenomeno sta poi prendendo una piega controversa, dato che un aumento dei prezzi nel settore moda sta dilagando nello stesso periodo storico in cui il nostro salario minimo è tra i più bassi d’Europa e in cui l’impennata di affitti e bollette sta già testando le finanze delle generazioni più giovani.
La fast-fashion, in particolare, sta cambiando i propri costi: Zara ha registrato un aumento di prezzi pari al +11%, per un prezzo medio (a capo) di 40 euro, un tentativo goffo di allontanarsi dalla fascia low-cost e di per sé un vero e proprio tradimento nei confronti della loro demografica di punta.
Il marchio era già considerato una sorta di “luxury” se paragonato ad altri brand fast-fashion (come H&M e Terranova), ma di fatto ha sempre proposto capi di qualità appena superiore ai suoi rivali commerciali, pur presentando le stesse mancanze in campo di ecosostenibilità e trasparenza, come conferma una semplice ricerca del brand sulla piattaforma Good On You.
Un circolo vizioso che alla lunga finirà per rafforzare i veri “campioni” della fast fashion, Shein e Primark, che, senza aumentare i propri prezzi e senza migliorare le proprie dinamiche di produzione ambientale e tutela dei lavoratori, si ritroveranno a gestire un vero e proprio monopolio della povertà.