Dopo il grande successo milanese, rimarrà in scena a Torino fino a domenica 14 dicembre, presso il TPE Teatro Astra, lo spettacolo “La città dei vivi”, inserito nella stagione 2025/2026 “Mostri” e liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Nicola Lagioia. Tutta la vicenda, che prende spunto da un fatto di cronaca nera realmente accaduto, viene trasfigurata in arte dal talento della regista e drammaturga Ivonne Capece e dall’intensa bravura dei protagonisti in scena, gli attori Sergio Leone, Daniele Di Pietro, Pietro De Tommasi e Cristian Zandonella. Arte che sembra essere l’ultimo baluardo di comprensione verso una violenza senza nome, inquietante poiché apparentemente priva di significati profondi, in cui l’etica e la morale vengono travolte dal potere dell’immagine catatonica, grave come il dolore di una ferita che proviene già dal futuro, evocataci da sempre dal magico potere che la letteratura e il teatro possiedono: il saper essere voce nelle lande desolate del silenzio e dell’abisso, temi che lo spettacolo fa emergere in tutta la loro potenza mostruosa. 
Una pièce, “La città dei vivi”, che attraverso un’indagine d’omicidio metamorfizza in una sorta di confessione dell’artista, e della sua arte, nei confronti di un mostro e della sua origine, la responsabilità di portare a galla ciò che per impossibilità di parola e svuotamento morale vive nella dimensione del silenzio. Il caos, rappresentato nell’opera da una città di Roma, diventata ormai un enorme contenitore di violenza e specchio di ogni dinamica umana, è stimolo e sconforto, esaltazione e pena per ogni artista consapevole del suo compito: portare, attraverso l’arte, ordine dove vige il disordine.
Il libro di Nicola Lagioia e lo spettacolo di Ivonne Capece, com’è necessario che accada di fronte alle grandi opere, impongono riflessioni che partono dalla faccia oscura della medaglia, dal paradosso dell’ombra e della luce, nella demoniaca dimensione in cui vive la nostra società, impaurita da un’oscurità di cui ha percezione del pericolo soltanto al palesarsi, sotto la luce del Sole, dei suoi mostri.
Prima di tutti i grandi crimini contro l’umanità avvenuti durante la seconda guerra mondiale, i nazisti cominciarono con il censurare e bruciare i libri scomodi al potere, a perseguitare gli artisti portatori di una parola differente. I medesimi atti, le stesse persecuzioni avvennero in Italia, in Russia e, ancora oggi, in molti Paesi del mondo. In Toscana, a ridosso degli anni Duemila, fu creata la rete delle “Città rifugio” per accogliere intellettuali e scrittori perseguitati nei loro Paesi d’origine, un’iniziativa promossa da Antonio Tabucchi, tra i più importanti scrittori italiani del Novecento e autore di libri socialmente impegnati quali “Sostiene Pereira” e “La testa perduta di Damasceno Monteiro”, di cui “La città dei vivi” di Nicola Lagioia ripercorre certamente le intenzioni. Proprio Antonio Tabucchi, durante una conferenza, dichiarò:”La letteratura è il dubbio di fronte alle verità imposte e alle condizioni accettate in silenzio”.Proprio il silenzio e l’abisso, che sembrano rappresentare in scena una sorta di Giano Bifronte, sono il mostro che la letteratura e l’arte nel suo complesso combattono. “Mostri che lottano contro altri mostri”, citando Mary Shelley. L’arte stessa, riflettendoci, diventa mostruosa e fondamentale nel momento in cui il dramma, da rappresentazione circoscritta a un evento, muta in tema universale, ferendo il buio, schermo contro lo scandalo, l’inquietudine e il coinvolgimento emotivo di chi, fino a quel momento vivo fra i vivi, prova in seguito a considerarsi superstite di una società in progressivo disfacimento.
“La città dei vivi” è uno spettacolo contemporaneo, necessario, capace di ampliare gli orizzonti della coscienza e di porre continuamente lo spettatore in quel pathos dell’immagine allo specchio che, in fondo, somiglia a ognuno di noi. Una maniera di fare e intendere il teatro che simboleggia il felicissimo operato di Andrea De Rosa, direttore artistico del TPE Teatro Astra.
“Lo spettacolo non è un true crime, ma, al contrario, ne rappresenta l’antitesi.
Ho scelto di non concentrarmi sui dettagli del caso di cronaca, pur centrali nel libro, per indagare invece gli aspetti più universali ed esistenziali che emergono dalla trama – scrive nelle note di regia di Ivonne Capece – nel suo romanzo, Nicola Lagioia pone al centro non solo la vicenda, ma anche la città di Roma, che diventa una grande metafora dell’umanità.
Anche per questo, in scena non vengono mai pronunciati nomi propri: i personaggi assumono il valore di archetipi, figure che incarnano diverse sfumature della condizione umana.
C’è il mistero della violenza, quel paradosso intrinseco all’essere umano, capace di scolpire il Mosè di Michelangelo ma anche di distruggerlo a martellate, riducendolo in polvere da sniffare.
È il contrasto fra la grandezza creativa e la brutalità distruttiva dell’uomo, un dualismo ineludibile che percorre l’intera messinscena.
C’è poi chi invece osserva la violenza dall’esterno: il testimone, l’artista, colui che tenta di rappresentarla”.
Gian Giacomo Della Porta

