Ad un passo dalla gloria, Michele Alboreto. Con il suo sorriso gentile e, apparentemente, lontano dal mondo-glamour della Formula 1.
Ricordiamo il pilota milanese oggi, a 20 anni esatti dalla morte, avvenuta in pista, nel suo luogo preferito. In questo caso, la pista era quella del Lausitzring, in Germania, il 25 aprile 2001, durante un test privato con una Audi R8, un’auto paradossalmente molto più sicura di quelle che aveva guidato sui circuiti. E invece…
Ricordiamo il pilota milanese oggi, a 20 anni esatti dalla morte, avvenuta in pista, nel suo luogo preferito. In questo caso, la pista era quella del Lausitzring, in Germania, il 25 aprile 2001, durante un test privato con una Audi R8, un’auto paradossalmente molto più sicura di quelle che aveva guidato sui circuiti. E invece…
Aveva appena 44 anni.
Ricordo ancora quando appresi la notizia: smarrimento e sgomento, per un pilota serio, un “non personaggio” che forse non accendeva di passione le folle, ma che con la Tyrrel aveva fatto già vedere cose straordinarie e che con la Ferrari avrebbe meritato senz’altro più fortuna. Italiano a bordo della Rossa: è stato probabilmente il penultimo pilota che ho veramente amato, dopo Piquet e prima di Senna, tutti diversissimi tra di loro. Poi, basta.
Non aveva una famiglia facoltosa alle spalle che gli potesse “comprare” il sedile, Michele, che si conquistò la Formula 1 grazie ai suoi sacrifici e ai suoi successi nelle serie minori, dalla Formula Monza fino alle due vittorie (a Las Vegas e a Detroit) ottenute con la sgangherata Tyrrel di inizio anni ’80.
Poi, primo italiano dal 1973, l’arrivo in Ferrari, coccolato dal Drake, che lo definiva cosi: “Un giovane che guida tanto bene, con pochi errori. È veloce, di bello stile: doti che mi rammentano Wolfgang von Trips, al quale Alboreto somiglia anche nel tratto educato e serio. Ho sostenuto che è fra i sei migliori della Formula 1 e che con una macchina competitiva non sprecherà certamente l’occasione di diventare campione”.
L’occasione arrivò nel 1985, vincendo due GP (Canada e Germania), in un testa a testa con Alain Prost: ma dopo il Gran Premio d’Italia, la Ferrari inanellò quattro ritiri nelle cinque gare conclusive e Alboreto dovette accontentarsi della piazza d’onore nel mondiale piloti.
Poi, primo italiano dal 1973, l’arrivo in Ferrari, coccolato dal Drake, che lo definiva cosi: “Un giovane che guida tanto bene, con pochi errori. È veloce, di bello stile: doti che mi rammentano Wolfgang von Trips, al quale Alboreto somiglia anche nel tratto educato e serio. Ho sostenuto che è fra i sei migliori della Formula 1 e che con una macchina competitiva non sprecherà certamente l’occasione di diventare campione”.
L’occasione arrivò nel 1985, vincendo due GP (Canada e Germania), in un testa a testa con Alain Prost: ma dopo il Gran Premio d’Italia, la Ferrari inanellò quattro ritiri nelle cinque gare conclusive e Alboreto dovette accontentarsi della piazza d’onore nel mondiale piloti.
Da lì, forse, qualcosa si ruppe nell’entusiasmo del gentile e sensibile Michele. Gli anni successivi furono modesti, sia per la Ferrari – che aveva puntato su Gerhard Berger – sia per Alboreto. Il capolinea, a Monza, nel 1988, un mese dopo la morte di Enzo Ferrari.
Triste declino in Formula 1 – piccole scuderie di retrovia: Larrousse, Footwork, Scuderia Italia e Minardi -, ma non nelle corse, grazie alla vittoria alla 24 Ore di Le Mans del 1997. Un trionfo che confermava quanto diceva di lui Enzo Ferrari: “Guida tanto bene, con pochi errori”.
Triste declino in Formula 1 – piccole scuderie di retrovia: Larrousse, Footwork, Scuderia Italia e Minardi -, ma non nelle corse, grazie alla vittoria alla 24 Ore di Le Mans del 1997. Un trionfo che confermava quanto diceva di lui Enzo Ferrari: “Guida tanto bene, con pochi errori”.
Chissà se è stato uno di quei pochi errori ad essergli fatale, vent’anni fa.
O se così volle il Destino degli uomini veloci.
O se così volle il Destino degli uomini veloci.