In una cornice affacciata sull’Atlantico, simbolo di equilibri da ricostruire, Stati Uniti e Unione Europea hanno raggiunto un’intesa che mette fine, almeno temporaneamente, all’escalation tariffaria minacciata nei mesi scorsi. L’accordo prevede l’introduzione di un’aliquota del 15% su una vasta gamma di merci europee esportate verso il mercato statunitense. Una cifra che, pur ridimensionata rispetto alla precedente ipotesi del 30%, rappresenta una soglia ancora significativa rispetto ai livelli pre-2020.
Al centro dell’intesa, definita “storica” dal presidente Donald Trump e “strategica” dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen, vi è un compromesso multilaterale: oltre alle nuove tariffe, Bruxelles ha accettato l’acquisto vincolato di gas naturale liquefatto per 750 miliardi di dollari, l’impegno a investimenti infrastrutturali sul suolo americano per oltre 600 miliardi e un pacchetto di commesse militari su scala mai vista. Il patto include inoltre una revisione selettiva delle tariffe su acciaio e alluminio – che restano al 50% – e un sistema di esenzioni mirate per settori ad alta criticità: aerospazio, semiconduttori, prodotti chimici avanzati, materie prime rare e alcune specialità farmaceutiche.
Il lusso europeo nella morsa dell’incertezza
L’accordo porta con sé implicazioni immediate per uno dei comparti più esposti: la moda e il lusso. Marchi iconici dell’eleganza europea – da LVMH a Hermès, da Kering a Moncler – si ritrovano ora a ricalcolare i margini sulle esportazioni verso il mercato nordamericano, che vale complessivamente oltre 40 miliardi di euro per il settore.
Se da un lato il dazio al 15% viene accolto con sollievo rispetto alle ipotesi ben più draconiane ventilate nei mesi scorsi, dall’altro costituisce una frizione concreta, specie per categorie ad alto valore aggiunto ma con margini già assottigliati dalla pressione inflattiva, dalla volatilità valutaria e dall’evoluzione dei consumi globali.
Secondo fonti del comparto, l’impatto sarà asimmetrico: penalizzate soprattutto le maison indipendenti e le PMI italiane, meno protette da economie di scala o da catene logistiche integrate. Più resiliente la posizione dei grandi conglomerati, che già da tempo operano hub distributivi e retail diretti negli USA, capaci di ammortizzare l’effetto tariffario.
Effetto catena sulle strategie di filiera
L’accordo genera anche una nuova mappa geopolitica della produzione. L’ipotesi di rilocalizzare parzialmente in Nord America alcune fasi produttive – dalla pelletteria al packaging – è già oggetto di studio in diversi board direzionali. Tuttavia, la qualità manifatturiera, cuore pulsante del made in Europe, non è facilmente replicabile: ne derivano complessità operative e riflessioni profonde su pricing, branding e storytelling.
Il lusso, più di altri comparti, si muove su equilibri delicati: aumentare i prezzi al consumo può proteggere i margini, ma rischia di alterare la percezione di esclusività se non accompagnato da una narrazione coerente e un’esperienza coerente con il valore promesso.
Prospettive e incognite
Mentre le borse europee reagiscono con moderato ottimismo – i titoli del lusso recuperano parte delle perdite accumulate tra maggio e luglio – il clima resta sospeso. Il patto commerciale è infatti soggetto a verifiche semestrali, con la possibilità di essere ritirato o irrigidito in caso di controversie future. Inoltre, il ciclo elettorale americano e le divergenze interne all’UE potrebbero rendere fragile questa tregua doganale.
Per la moda, il tempo della linearità è finito. Nell’era dei dazi fluttuanti, della regionalizzazione delle supply chain e dell’interconnessione tra politica e mercato, a vincere saranno le aziende capaci di leggere il rischio come leva strategica. Il lusso non si deindustrializza, ma si reinventa: come un abito su misura, tagliato con precisione sulle forme in continuo movimento del mondo.